Libero Cerrito


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Il Dibattito Sulla Legittimita’ Delle Azioni Positive
1.Le origini delle azioni positive: il caso USA

Le azioni positive sono nate negli Stati Uniti tra gli anni sessanta e settanta per affrontare la discriminazione razziale e solo in un  secondo momento estese  a quelle di genere[1] L’Europa è un latecomer rispetto agli USA e l’Italia lo è rispetto all’Unione europea e a molti paesi europei. Ciò non vuol dire che questi latecomers abbiano semplicemente imitato gli USA ma hanno affrontato il dibattito complessivo delle pari opportunità nel contesto della loro forte tradizione giuridica, filosofica e istituzionale.

Negli USA è stata posta in essere una poderosa legislazione per la politica delle pari opportunità; mi riferisco all’EPA (Equal Pay Act) del 1963 e al TitoloVII del Civil Rights Act (Legge per i diritti civili) del l964, con i suoi successivi emendamenti del 1972 e del 1979.[2]

Le azioni positive (affirmative actions in americano) sono centrali nelle politiche di parità tanto che azione positiva è “quasi” sinonimo di politiche delle  pari opportunità; “quasi” perché le azioni positive puntano più sul risultato che non alla correttezza delle procedure (negli ultimi anni si è evidenziata la contrapposizione tra pari opportunità e parità di risultati). L’intervento legislativo cardine è stato il Titolo VII che ha vietatola discriminazione sulla base della razza, della religione, del sesso e dell’origine nazionale nel rapporto di lavoro. Il discorso delle quote, che sono indubbiamente l’aspetto più drastico delle azioni positive, entrò subito nei piani di azioni positive. Il primo e più rilevante caso di discriminazione sessuale negli USA è stato quello della AT&T, American Telephone and Telegraph Company che nel 1973 fu condannata per discriminazione (pagò 38 milioni di dollari di salari arretrati).Dopo la condanna fu messo a punto da un gruppo di sociologi, giuristi, economisti e psicologi un piano di azioni positive comprendenti le quote per le donne e per le minoranze etniche.[3]

Il caso AT&T è stato un monito per le aziende ed i sindacati.

Le politiche di trattamento differente hanno trovato l’ostacolo dell’egualitarismo liberale cioè della cittadinanza liberale classica ,basata sulla neutralità pubblica nei confronti delle diverse identità collettive. L’idea liberale sostiene che qualunque sia la ragione per cui un gruppo sociale è svantaggiato non può giustificare un’ingiustizia ai danni di qualunque individuo il quale ha l’inalienabile diritto ad essere trattato come eguale.

Al riguardo il più importante caso giudiziario è stato il caso Bakke (1978).Uno studente bianco non fu ammesso alla Scuola di Medicina dell’Università di California Davis perchè l’Università aveva riservato sedici dei cento posti disponibili per studenti ai gruppi di minoranza. Bakke sostenne in giudizio che se non vi fossero stati quei sedici posti riservati per le minoranze, egli sarebbe probabilmente stato ammesso, dato che i suoi risultati erano migliori di quelli dei gruppi di minoranza ammessi; quindi Bakke accusò l’Università di aver violato il suo diritto ad un eguale trattamento.

La Corte Suprema giudicò che l’Università avesse violato i diritti di Bakke, ma affermò altresì che fosse legittimo che le Scuole e le  Università prendessero in considerazione ai fini dell’ammissione la razza (tuttavia la razza non doveva essere l’elemento determinante di tali decisioni).

Il caso Bakke è stato un pilastro della giurisprudenza americana.

Ronald Dworkin, filosofo e costituzionalista, è stato un forte sostenitore delle azioni positive.“Dworkin mette innanzitutto in discussione il criterio del “merito””[4], che per Dworkin non esiste e ritiene che comunque esso si possa associare alla razza o al genere.

Dworkin proponeva una società più giusta nella quale sacrificare alcuni individui favorendone altri che appartengono ai gruppi svantaggiati.[5]Ronald Dworkin, in un saggio sul Liberalismo, distingue tra ideali costitutivi, e perciò irrinunciabili, e ideali derivati che sono strategie per realizzare i primi e perciò possono variare. Secondo Dworkin, trattare i cittadini da eguali (trattare ciascuno con eguale considerazione e rispetto pubblico ) è l’ideale costitutivo del liberalismo. I trattamenti eguali sono invece un ideale derivato per realizzare l’ideale costitutivo. Non sempre tuttavia trattare egualmente le persone significa trattarle da eguali, ci sono casi in cui la mancata considerazione della differenza  produce effetti discriminatori nei confronti dei portatori della differenza stessa. In questi casi per trattare da eguali chi è portatore e chi no di una certa differenza, occorre configurare trattamenti preferenziali, cioè trattamenti che favoriscono gli svantaggiati, per compensare e risarcire una situazione di inferiorità, di discriminazione pregressa; “tra questi rientrano le molto discusse azioni affermative e i sistemi di quote riservate”.[6]

Tuttavia la polarità tra diritti degli individui e diritti dei gruppi ha oscillato nei decenni.

Negli anni ottanta è ritornato il liberalismo e il darwinismo sociale. Inoltre le rivendicazioni settoriali hanno diviso il mondo degli emarginati rendendoli più deboli.

Nel 1996 in California è stata approvata la Proposition 209 che vieta alle istituzioni statali di adottare trattamenti preferenziali sulla base del sesso, dell’etnia etc.

La questione della differenza di genere è secolare. Alla base del pensiero della differenza c’è la constatazione delle profonde differenze tra uomini e donne sotto l’aspetto sociale, culturale e biologico.

In politica alla fine del XIX secolo il movimento per il suffragio fu portabandiera delle differenze di genere. Il tema della differenza è entrato nella discussione e nella teoria politica assumendovi un ruolo di primo piano in conseguenza dei movimenti per i diritti civili degli anni sessanta negli USA e dei movimenti giovanili e studenteschi in tutto il mondo occidentale. Come ricorda Elisabetta Galeotti “Si può dire che con la differenza viene affermato il rifiuto di un’emancipazione assimilante alla maggioranza o a gruppi dominanti, da parte di gruppi oppressi, marginali ed esclusi che invece invocano una loro inclusione nella città democratica, non già a dispetto, ma in virtù appunto della loro differenza”.[7]

Anche gli studi psicologici e psicoanalitici hanno sostenuto posizioni neoessenzialiste che hanno esaltato la maternità e l’attività di cura della donna.(Va ricordato al riguardo lo studio di Gilligan).[8]

Questa teoria è ambivalente; può alimentare le pretese morali e politiche delle donne, ma può anche sanzionare la validità dei loro ruoli tradizionali, contro l’emancipazione.

Analizziamo ora un caso giudiziario che è un esempio dell’utilizzo di teorie della differenza per politiche conservatrici: il caso Sears.

La Sears è il più importante rivenditore al dettaglio negli USA nonché quello che  detiene la maggior concentrazione femminile. L’azienda fu accusata di discriminare sistematicamente le donne relegate ai posti inferiori e con poche possibilità di carriera.

La difesa dell’azienda puntò sulla “differenza” delle donne, spiegando che erano le donne che preferivano per loro natura le mansioni inferiori che non comportavano rischio, competizione, aggressività. In giudizio furono portate le testimonianze di due esperte di storia delle donne (Rosalind Rosemberg e Alice Kessler Harris) che hanno sottolineato rispettivamente la “differenza femminile” e le aspirazioni alla parità delle donne sul lavoro.

La causa fu vinta dalla Sears segnando la più importante sconfitta delle pari opportunità negli anni ottanta.[9] Tuttavia la giurisprudenza successiva rimase aperta e controversa.

Dal punto di vista della teoria costituzionale la Corte suprema nordamericana ha sempre tutelato gli esclusi dei processi politici dalle discriminazioni degli insiders.

E’ interessante al riguardo la teoria delle suspect classications.[10]

Questa teoria si allontana dalla concezione dei diritti individuali di tradizione liberale per accogliere il pluralismo delle società democratiche moderne. La teoria dei gruppi di minoranza e la costruzione di un modello di tutela antidiscriminatoria  avente come destinatario il gruppo sociale, hanno fornito legittimazione giuridica a una strategia politica di tipo rimediale-inclusivo che si è sostanziata nelle azioni positive e, più in particolare, nei preferential treatments.[11] Come ricorda Marzia Barbera “Le finalità assegnate ai preferental treatments, il loro essere concepiti come mezzo di inclusione sociale e di sviluppo della democrazia partecipativa” risultano dalle decisioni della corte suprema. Nella lettura della Corte suprema le azioni positive sono diventate lo strumento principale della politica di integrazione dei gruppi esclusi.

Si deve precisare un aspetto relativo al merito. Le azioni positive non comportano l’abbandono della meritocrazia in quanto l’azione positiva è solo l’eccezione alla regola del merito. L’attuale atteggiamento della Corte suprema sulle azioni positive dimostra come le posizioni giuridiche possono cambiare nel tempo. La legittimità dell’azione positiva si è basata sull’eccezione che rimedia le discriminazioni. L’attuale Corte suprema ritiene che sostanza dell’eguaglianza  sia di garantire a ciascuno il diritto di essere trattato come individuo e che compito del diritto non sia di trasformare la società e di riequilibrare i vari rapporti di forza tra i diversi gruppi sociali.

Si può parlare al riguardo di un “paradigma conservatore”. La lettura della Corte suprema del principio di eguaglianza è, fondamentalmente, che le diseguaglianze, basate sulla razza, sul genere etc., sono per il diritto presupposte eguali ,e, quindi tutti gli individui sono presupposti eguali, è solo l’intervento che mira a correggere le diseguaglianze di fatto che deve essere giustificato perché non ci si può sottrarre alla regola senza doversi giustificare. Così le azioni positive sono diventate sempre più difficili da giustificare ed è diventato più difficile convincere l’opinione pubblica che era giusto affrontare tali difficoltà.[12]

Il discorso sul significato dell’eguaglianza e della differenza resta aperto. Le stesse sentenze della Corte suprema dimostrano l’impossibilità di dare un significato univoco di eguaglianza. In un recente caso[13] la Corte ha prodotto sei opinioni diverse riguardoil significato da dare all’eguaglianza. Il giudice Scalia ha espresso nel caso Croson che “lo scopo benevolo di compensare gli svantaggi sociali, siano essi dovuti a passate discriminazioni o ad altro, non può non essere perseguito attraverso il mezzo illegittimo della discriminazione razziale.”

La Corte non sospetta solo della legittimità delle classificazioni basate sulla differenza razziale ma anche su quelle di genere.[14] La posizione del giudice Scalia ha permesso di considerare legittime le decisioni pubbliche che non tengono conto delle differenze di gruppo.

2.Le azioni positive a livello CEE

2.1.Le Azioni positive nel diritto CEE

Passiamo a considerare le azioni positive nel diritto CEE. La direttiva 76/207/CEE del 9 febbraio 1976 che stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la promozione e l’accesso alla formazione professionale, precisa all’art. 2 n.1 che detto principio “implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne” nell’accesso al lavoro.

Quindi da un lato il diritto comunitario fissa il principio generale della parità di trattamento per l’accesso al lavoro, vietando discriminazioni fondate sul sesso, applicando il principio della eguaglianza formale; dall’altro lato fornisce l’eccezione alla regola, legittimando l’adozione da parte degli stati di misure discriminatorie nei confronti dei candidati di sesso maschile, ma funzionali a stabilire una situazione di pari opportunità nei confronti delle donne, secondo un criteri di eguaglianza sostanziale. Il punto cruciale è definire i confini di applicazione della eccezione rispetto alla regola.  Il Consiglio emanò la raccomandazione 84/635/CEE del dicembre 1984, sulla promozione delle azioni positive a favore delle donne che sostiene che i governi devono intraprendere azioni per garantire la eguaglianza sostanziale tra uomini e donne.

Riferendosi all’art. 2, n. 4 della direttiva 76/207/CEE, il Consiglio raccomandò  agli Stati di adottare una politica di azione positiva intesa ad eliminare le disparità di fatto che colpiscono le donne nella vita lavorativa, mediante misure compensative che abbiano l’effetto di “incoraggiare la partecipazione delle donne alle varie attività nei settori della vita lavorativa nei quali esse siano attualmente sottorappresentate, in particolare nei settori dell’avvenire, e ai livelli superiori di responsabilità, per ottenere una migliore utilizzazione di tutte le risorse umane”.

L’intento della raccomandazione sembra quello di ampliare l’effetto delle azioni positive in modo tale da garantire alle donne una situazione di eguaglianza sostanziale.

L’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1997 ha comportato un rafforzamento dell’eguaglianza sostanziale tra uomo e donna.[15] Nel nuovo trattato CEE gli artt.  2 e 3 assegnano espressamente alla Comunità il compito di promuovere la parità tra uomini e donne e di eliminare le ineguaglianze, mentre l’art. 13 consente al Consiglio di adottare[16] i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso. Il nuovo articolo 141 al n. 4 precisa che “allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”. Nella Dichiarazione allegata al Trattato di Amsterdam [17] si chiarisce che gli Stati membri, nell’adottare le misure di cui all’art. 141 n.4, “dovrebbero mirare, anzitutto, a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa”.

Questa innovazione riflette la volontà degli Stati di perseguire l’eguaglianza di risultato [18]sotto la precisa condizione giuridica di sottorappresentazione del sesso favorito. Si è passati dalla configurazione dell’azione positiva come eccezione alla regola contenuta nella direttiva 76/207/CEE alle nuove disposizioni del Trattato di Amsterdam che sembrano quasi indicare l’azione positiva come principio equiordinato rispetto al principio di pari trattamento.

Prima di analizzare tre importanti sentenze della Corte di giustizia CEE vorrei ricordare che “le decisioni della Corte di giustizia hanno sempre ricadute più ampie del singolo caso trattato”[19] , particolarmente se riguardano il concetto di discriminazione, il cui ambito di incidenza va oltre quello delle discriminazioni di genere e anche oltre le discriminazioni soggettive.[20] Esaminerò, ora, tre importanti sentenze della Corte di giustizia europea : la sentenza Kalanke del 1995, la sentenza Marschall del 1997 e la sentenza Badeck del 2000.

 

2.2. Sentenza Kalanke (17 ottobre 1995)

Il concetto di fondo della sentenza Kalanke è la distinzione tra eguaglianza di opportunità ed eguaglianza di risultato, da cui deriva, secondo la Corte, l’illegittimità delle quote che assegnano direttamente il risultato al genere sottorappresentato anziché garantire eguale opportunità ai due generi. L’altro aspetto cruciale della sentenza è il contrasto tra la concezione dell’eguaglianza tra individui sostenuta dalla Corte, e quella dell’eguaglianza fra gruppi. Per chiarire meglio la questione occorre però narrare la storia del signor Kalanke e della signora Glissmann e della controversia che li ha divisi.

Si doveva assegnare un posto di capo del dipartimento giardini del comune di Brema ed erano stati considerati  idonei due candidati: il signor Kalanke, laureato in ingegneria e specializzato in tecnica di giardinaggio e paesaggistica, che lavorava dal 1973 come tecnico di orticoltura nel dipartimento giardini con funzioni di vicecapo dipartimento, e la signora Glissmann, impiegata dal 1975 come tecnico di orticoltura nel stesso ufficio e titolare anch’essa, dal 1983, della medesima laurea di ingegnere specializzato.

L’art. 4 della legge 20 novembre 1990 del Land di Brema, relativa alla parità tra uomini e donne nel pubblico impiego, stabiliva che nelle assunzioni e nelle promozioni, a parità di qualificazione tra  candidati di sesso diverso, si dovesse dare priorità alla candidata donna se vi fosse sottorappresentanza di donne nel settore. In considerazione di tale legge il comune di Brema ha  promosso la signora Glissmann. La questione arriva  alla Corte di giustizia delle Comunità europee che dichiara che c’è contrasto tra la legge del Land di Brema e la direttiva n.76/207/CEE. La decisione della CGCE si fonda sulla premessa che l’art.2, n.4 della Direttiva 76/207 ha il fine preciso e limitato di autorizzare misure, che pur apparendo discriminatorie, siano dirette effettivamente a eliminare o ridurre le diseguaglianze di fatto che possono esistere nella realtà sociale.

Poiché, inoltre, tale articolo introduce una deroga al diritto individuale sancito dalla direttiva, tale disposizione è di “interpretazione stretta”. Inoltre la priorità assoluta e incondizionata assicurata alle donne dal LGG và al di là della promozione dell’eguaglianza di opportunità e oltrepassa i limiti dell’eccezione prevista dall’art. 2, n. 4 della Direttiva.

Infine il sistema di priorità stabilito dal LGG sostituisce alla promozione di eguali opportunità il risultato al quale solo la messa in opera di eguali opportunità potrebbe pervenire.[21]

2.3 Sentenza Marschall (11 novembre 1997)

Con la sentenza Marschall del 1997 la Corte si dimostra più favorevole alle azioni positive e ammette un sistema di quote “flessibile”. Con questa sentenza la Corte ha giudicato compatibile con il diritto comunitario la normativa dello statuto del personale del Land Renania settentrionale-Vestfalia che assegnava la precedenza alle donne nella promozione in settori con insufficiente rappresentanza femminile in caso di pari qualificazione professionale, poiché era fatta salva la prevalenza di motivi inerenti  alla persona di un candidato di sesso maschile.

La Corte, dunque, conclude che poichè nelle “promozioni si tende a preferire i candidati di sesso maschile a quelli di sesso femminile, anche in caso di pari qualificazioni, a causa di taluni pregiudizi e di talune idee stereotipe sul ruolo e sulla capacità della donna nella vita attiva”[22], e per questi motivi il fatto che due candidati di sesso diverso abbiano eguali qualificazioni non implica, di per sé, che essi abbiano pari opportunità[23], la Corte ritiene ammissibile con l’art.2, n. 1 e 4 della direttiva del 1976 una norma nazionale che, in caso di pari qualificazione tra candidati di sesso diverso, e dove le donne (nel settore pubblico) siano sottorappresentate diano la precedenza alla promozione delle donne se, in ciascun caso individuale, garantisce ai candidati di sesso maschile aventi una qualificazione pari ai candidati di sesso femminile un esame obiettivo delle candidature, che prenda in considerazione tutti i criteri relativi alla persona dei candidati e non tenga conto della precedenza accordata alle donne, quando uno o più di detti criteri facciano propendere per il candidato di sesso maschile.

In conclusione con la sentenza Marschall la Corte ha escluso la legittimità di misure nazionali che accordino alle donne una preferenza automatica ed incondizionata nelle assunzioni e delle promozioni verso settori del pubblico impiego caratterizzati da insufficiente rappresentanza femminile e che impediscano un esame obiettivo delle candidature che tenga conto della situazione personale di tutti i candidati.

2.4. Sentenza Badeck (28 marzo 2000)

Con questa sentenza la Corte di giustizia delle comunità europee risponde alla domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dalla Corte costituzionale del Land dell’Assia sull’interpretazione dell’art.2,nn.1 e 4 della direttiva del Consiglio 76/207/CEE del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione professionale e le condizioni di lavoro, in riferimento ad una legge nazionale concernente un programma di assunzione e promozione della donna nel pubblico impiego.

Con questa sentenza la Corte di giustizia non si discosta dalla giurisprudenza precedente, confermando che un’azione positiva nazionale è compatibile con la deroga disposta dal diritto comunitario al principio generale di parità di trattamento tra uomini e donne solo se è possibile verificare, oltre alla condizione di insufficiente rappresentanza femminile, che il sistema di quote non accordi una precedenza automatica ed incondizionata alle donne e consenta un esame obiettivo di tutte le candidature, così da permettere, se del caso, al datore di lavoro di sottrarsi all’obbligo di promozione del candidato di sesso femminile. Le innovazioni apportate dal Trattato di Amsterdam, per un verso, sembrano autorizzare le misure nazionali a perseguire un’eguaglianza sostanziale e di risultato tra uomini e donne nell’accesso al lavoro, per l’altro, ne subordinano la compatibilità con il diritto comunitario al rispetto del solo requisito di sottorappresentanza del sesso favorito. La Corte di giustizia, tuttavia, confermando l’orientamento delle sentenze Kalanke e Marschall, continua ad imporre alle leggi nazionali in materia di azioni positive limiti e condizioni che non sono espressamente previsti dal Trattato CE.

3. Il dibattito sulle azioni positive in Italia

L’Italia è un paese latecomer nelle politiche delle pari opportunità. Oltre ad essere un paese dalla precoce parità formale, l’Italia vede la differenza della tradizione cattolica.

Non è un caso che l’Italia abbia avuto fin dagli anni cinquanta un’ottima legislazione di tutela della maternità per le lavoratrici, dovuta certo alla mobilitazione della sinistra, ma anche risultato di una convergenza tra la cultura cattolica e quella della sinistra.

Il femminismo della differenza ha potuto diventare dominante in Italia negli anni ottanta anche per la peculiarità di quella tradizione. In Italia, negli anni ottanta  e novanta, in politica la differenza è stata evocata solo ideologicamente, senza approfondimenti teorici; e nella politica concreta non sono stati seriamente affrontati i problemi della rappresentanza femminile, né le scadenze specifiche delle diverse politiche rilevanti per le donne, comprese tra queste le pari opportunità. Negli anni novanta si è prodotto un visibile scollamento nel rapporto tra donne e politica. Il declino è significativo se paragonato con il passato politico italiano, con l’affermazione del movimento delle donne dagli anni sessanta  ai primi anni novanta, con il modesto ma progressivo sviluppo delle pari opportunità negli stessi anni.

3.1. Legge 903 / 1977

L’Italia ha introdotto le azioni positive solo nel 1991 con la legge 10 aprile 1991, n. 125 (“Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”).Tuttavia l’interesse sul tema della parità e dell’eguaglianza di opportunità risale a quando il dibattito aveva ad oggetto la legge 903 del 1977 (“Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”) che aveva stabilito la parità salariale e il divieto assoluto di discriminazione fondata sul sesso (art.1).La pari dignità sociale dei cittadini, indipendentemente dalle situazioni di diversificazione sussistenti, uno di queste costituito dal sesso, trova pieno riconoscimento, in generale, nell’art. 3 della Costituzione italiana mentre nell’art. 37, 1° comma della stessa è ribadita in riferimento al rapporto di lavoro subordinato.La legge 903 rappresenta il primo considerevole intervento normativo in tema di parità di trattamento tra uomo e donna nel lavoro, trascura però il non meno importante principio delle pari opportunità tra uomini e donne. L’art. 1 della suddetta legge sostiene che “è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”. Non sono escluse dall’ambito applicativo della normativa le iniziative riguardanti l’orientamento, il perfezionamento e l’aggiornamento professionale, sia in riferimento all’accesso sia ai contenuti. Sono previste deroghe solo in caso di mansioni particolarmente pesanti. Da notare che l’art.1, 2° comma parla di discriminazioni indirette, ma solo in relazione a specifiche fattispecie. L’art.7 rende più effettiva la parità di trattamento tra uomo e donna prevedendo il diritto ad assentarsi dal lavoro ed il diritto di percepire il trattamento economico relativo anche per il padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice ( la disciplina è sta modificata ed integrata dall’art.13, l. 8.3. 2000,n.53) e dall’art.9 che contempla che gli assegni famigliari,  aggiunte di famiglia e maggiorazioni delle pensioni per famigliari a carico possano essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice, alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore. L’art. 13 della l.n.903/1977 stabilisce  che è da ritenersi nullo ogni fatto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore in ragione del sesso, licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione delle qualifiche o delle mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli pregiudizio a causa del suo sesso. In riferimento al regime sanzionatorio previsto dalla l. 903/1977 vediamo gli artt. 15 e 16. L’art. 15 sanziona le violazioni di cui all’art.1, in sede di assunzione, e all’art. 5 sul divieto di lavoro notturno nelle ipotesi ivi previste.

L’art.16 sanziona le disposizioni degli art.1, 1°,2° e 3°co.,2,3,4 (discriminazioni nella retribuzione, nell’attribuzione delle qualifiche, nella progressione di carriera), e 5,6,7 (diritto ad assenze e permessi) con ammende di varia entità. L’art. 13 della stessa legge sanziona i casi di discriminazione verificatesi o nel corso del rapporto di lavoro o al momento della sua cessazione, sanzionando la nullità dell’atto che ha integrato la discriminazione.

Tuttavia si impongono alcune considerazioni. In primo luogo secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 28.3.1980,n. 2054, Fi, 1980.I,830) la sanzione di nullità opera solo nel senso di eliminare l’atto, senza, peraltro, produrre alcun effetto costitutivo relativamente al rapporto di lavoro del soggetto discriminato. Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. 1.2. 1988, n. 868, RGL,1988,II,354) occorrerà dimostrare, in sede di giudizio, in particolare l’intento dannoso, non già il motivo che ha condotto ad avvantaggiare il lavoratore/i favorito/i, rendendo di scarso utilizzo pratico, per il soggetto passivo dell’atto, i suddetti strumenti. Da queste considerazioni nasce l’esigenza di una nuova disciplina affinchè si possa attuare nei fatti la parità di trattamento tra i sessi nel rapporto di lavoro.(Si veda il giudizio di Maria Vittoria Ballestrero in “Dalla tutela alla parità, La legislazione italiana sul lavoro delle donne”, Il Mulino, 1979, p. 279).[24]

3.2.Legge 125/1991

La legge 10 aprile 1991, n. 125, prevede l’introduzione delle azioni positive al fine di realizzare l’effettiva parità uomo-donna nel lavoro.Scopo della legge, così come si legge nell’art. 1, l.n. 125/1991, è di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure denominate, appunto, azioni positive, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Il particolareggiato 2° co., dello stesso art. 1, esplicita gli scopi che dovrebbero avere le azioni positive; esse dovranno proporsi di :

a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità.; 

b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, in particolare attraverso l’orientamento scolastico e professionale e gli strumenti di formazione; favorire l’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la  qualificazione professionale delle  lavoratrici autonome e delle imprenditrici;

c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell’avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;

d) promuovere l’inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;

e) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.

Gli obiettivi della l.n. 125 del 1991 sono enunciati nel primo comma dell’art.1:”le disposizioni della presente legge hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”.

Ci sono tre scopi diversi: ”favorire l’occupazione femminile”; “realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro”; “rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”. Quanto alle “misure denominate azioni positive per le donne”, queste sono presentate come strumenti direttamente collegati alla realizzazione di due obiettivi (favorire l’occupazione femminile; realizzare l’eguaglianza sostanziale nel lavoro), ma non del terzo (rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità).

La rimozione degli ostacoli che di  fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità è collocata all’interno del più generale obiettivo della realizzazione dell’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro.

La realizzazione di pari opportunità è un passo nella direzione dell’eguaglianza sostanziale fra uomini e donne nel lavoro, mentre le azioni positive si configurano come misure di tipo particolare verso le pari opportunità.

La l. n.125 fa esplicito riferimento al principio di eguaglianza sostanziale, cioè al 2° comma dell’art.3 Cost.

Sul concetto di “eguaglianza sostanziale” circolano idee diverse; l’idea stessa di “diritto diseguale”, “ripugna alla tradizionale concezione neutra del principio di eguaglianza”.[25]

La eguaglianza “formale” consiste nel negare legittimità alla considerazione di taluni elementi che differenziano gli individui come ( secondo l’elenco di cui all’art. 3, comma 1°, Cost.) il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali o sociali; nel negare, dunque, la legittimità di trattamenti diseguali in ragione del sesso, della razza etc.

L’interpretazione data dalla Corte costituzionale sostiene che, alla luce di tale principio, sia illegittimo trattare in “modo diseguale” individui che sono in situazioni analoghe, ma che sia al tempo stesso legittimo trattare in modo diverso persone che versano in situazioni diverse.[26] In conclusione, dal principio di eguaglianza formale non discende né che gli individui debbano essere trattati sempre in modo eguale, né che, di conseguenza, ogni differenza di trattamento tra gli individui sia illegittima.

Il principio di eguaglianza sostanziale mette in rilevo le disparità di fatto che dipendono dall’appartenenza ad una classe di persone o ad un gruppo sociale determinato; la nozione di discriminazione si amplia fino a ricomprendere quei trattamenti formalmente neutri dai quali derivano conseguenze diseguali e pregiudizievoli, per omessa considerazione delle disparità fattuali esistenti tra appartenenti a classi di persone e gruppi sociali diversi (discriminazione indiretta).

Come sostiene Gisella De Simone “ciò comporta la necessità di tener conto delle differenze di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e sociali al fine di poter effettivamente rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che derivano da tali differenze”. Non la differenza extra-giuridica degli individui o delle classi di individui deve essere rimossa ma le conseguenze negative che derivano dall’applicazione di regole  eguali a soggetti (o classi) che tali non sono.

L’obiettivo è quello espresso dallo stesso 2° comma dell’art.3 Cost.: il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla vita comune.

Se si pone come obiettivo l’eguaglianza sostanziale, il diritto diseguale costituisce lo strumento per realizzare tale fine anche quando sia fondata su quelle distinzioni di sesso, razza etc. che l’eguaglianza formale indurrebbe a respingere.

L’appartenere a gruppi sociali svantaggiati è precondizione di quelle giustificate “deviazioni” dall’eguaglianza formale, che consistono nel garantire agli svantaggiati “pari opportunità”.

La parola differenza ha due significati principali.

In primo luogo per differenza si intende una diversa condizione sociale e culturale ( e dunque una diseguaglianza di fatto) che nasce da una considerazione di discriminazione sociale e giuridica. In questo senso la differenza assume il significato di esclusione.

Intesa in termini di esclusione, la differenza legittima le “deviazioni” dall’eguaglianza formale, ovvero le misure specifiche di “diritto diseguale”: il diritto prende in considerazione la differenza esistente, per promuovere, tramite le azioni positive, l’eguaglianza sostanziale. Per differenza si può tuttavia intendere una diversità ( un’identità di genere o di gruppo) da mantenere e da valorizzare. La differenza-specificità può allora risultare compatibile col principio di eguaglianza formale.

La differenza-specificità può tuttavia alludere al rifiuto dell’eguaglianza.[27]

Le espressioni “pari opportunità” e “azione positiva” meritano di essere precisate.

Il primo significato di pari opportunità è di stabilire condizioni di parità nei punti di partenza tra gli appartenenti ai due sessi. La sola parità nei punti di partenza non garantisce di per sé eguali risultati: questi potranno dipendere dai meriti, dagli sforzi realizzati dai singoli interessati. Però le pari opportunità nei punti di partenza non sono sufficienti ad impedire le diseguaglianze nei risultati. Secondo Ballestrero non è detto che la parità nei punti di partenza sia l’unico significato possibile dell’espressione “pari opportunità” ma che, secondo la l.n. 125 del 1991, si possano prevedere obiettivi di risultato. La legge n. 125 prevede che la realizzazione di pari opportunità possa passare anche attraverso l’adozione di misure giuridicamente “diseguali” dirette a favorire l’occupazione femminile, dette azioni positive.

Dall’enunciazione delle varie finalità cui le azioni positive possono essere dirette (art.1, comma 2°) risulta evidente che il legislatore ha prefigurato tre diversi modelli di azione positiva.

Il primo è quello dell’azione positiva come rimedio ai perduranti effetti sfavorevoli delle discriminazioni giuridicamente rilevanti (ai sensi dell’art. 4 della stessa legge); l’azione positiva assume carattere risarcitorio.

Il secondo modello di azione positiva ha l’obiettivo di rompere, per il futuro, la segregazione sessuale nell’orientamento e nella formazione professionali.

Il terzo modello vuole favorire l’equilibrio tra i sessi e far conciliare le responsabilità famigliari della donna con quelle del lavoro.

E’ opinione comune che la l.n. 125 segni il passaggio dalla parità formale, di cui alla l.n.903 del 1977, a quella sostanziale.[28] La disciplina in tema di azioni positive, però, solo ufficialmente fa da netto spartiacque tra le due concezioni di eguaglianza. Già in precedenza, anche in attuazione del principio di cui al comma 2° dell’art. 3 Cost.,  elementi di eguaglianza sostanziale erano entrati nel tessuto legislativo e contrattuale.

Alcune previsioni di legge come il 2° comma dell’art.3 l.n.903 del 1977, nonché gli art.4 e 8 della stessa legge; il comma 4°dell’art.25 l.n.675 del 1977; l’art.2, comma 4°bis,l.n.863 del 1984; l’art.17 l.n.56 del 1987, costituiscono una traccia indicativa di un tendenziale favor verso obiettivi di eguaglianza sostanziale. Tuttavia l’obbligo di rispettare le azioni positive non ha alcun valore sostanziale. La circostanza potrebbe essere imputabile alla particolare “forza” della l.n.125 del 1991, recentemente riconosciuta da una sentenza della Corte costituzionale, che l’ha classificata “legge di principi”. In quanto di derivazione comunitaria detterebbe criteri comunque validi anche se non esplicitamente richiamati da un’altra disposizione nazionale.

La questione dell’adozione di quote nel lavoro è sempre stata controversa in Italia.

Premessa generale è che tutte le opzioni facenti capo alla nozione di quota presuppongono, per la loro efficacia, un costante impiego di metodi di indagine statistici: importanti per monitorare la presenza effettiva di discriminazioni indirette, nonché per facilitare la scelta, anche in relazione alle esigenze di mercato, degli interventi da attuare. La scelta di questi nell’ambito delle quote spazia dall’adozione di quote rigide (fissazione di quote da raggiungere indipendentemente dall’indagine sul merito delle persone interessate dai provvedimenti) all’opzione in favore di quote che fissino dei requisiti minimi da possedere, al preferire quote che, a parità di qualificazione, dispongono un trattamento preferenziale per determinate categorie.

Inoltre, effetti differenti si ottengono anche imponendo le quote come obbligo, ovvero dando loro natura di incentivo. Nella seconda ipotesi la mancata previsione da parte dei datori di lavoro, sia pubblici sia privati, di un sistema di quotazione potrebbe implicare, ad esempio, la perdita del diritto a godere di sovvenzioni, di agevolazioni finanziarie, di vantaggi fiscali, ovvero comportare la mancata assegnazione di incarichi di lavoro pubblici. Non sempre, quindi, utilizzare sistemi di quote entra in contraddizione con il livello qualitativo dell’occupazione femminile, né con la libertà di scelta del datore di lavoro.

3.3. Quote di genere elettorali

La Corte costituzionale, con sentenza 12 settembre 1995, n. 422) ha dichiarato l’illegittimità delle quote di genere nelle liste elettorali. Per i nostri giudici il principio di eguaglianza si pone prima di tutto come problema di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate dall’art. 3 della Costituzione ( la razza, la lingua, la religione etc.).

Le quote non possono essere giustificate dall’obiettivo di promuovere un riequilibrio nella rappresentanza fra i due generi nelle assemblee elettive, in quanto tale obiettivo va a toccare il godimento di un diritto che è rigorosamente garantito in eguale misura ai cittadini in quanto tali. Ad essere confutabile è proprio l’interpretazione che la Corte dà dell’eguaglianza giuridica. La Corte costituzionale non ha mai ritenuto il differente trattamento di categorie diverse di persone discriminatorio di per sé, ma ha sempre guardato alla ragionevolezza di tale trattamento, ritenendolo conforme al principio di eguaglianza ogni volta che la diversità di trattamento corrisponda a una diversità di situazione obiettivamente rilevante. Bisogna aggiungere che proprio a partire dall’interpretazione dei principi sanciti dagli artt. 3, 1° comma, 37 e 51, in tema di distinzioni fondate sul sesso, la giurisprudenza ha costruito un’interpretazione non rigida, ma valutativa del principio di eguaglianza.

La seconda obiezione della Corte costituzionale all’impiego delle quote nelle liste elettorali, si basa nel loro essere in conflitto con un valore fondante della nostra

Costituzione, cioè il valore della neutralità della rappresentanza politica. Innanzitutto l’art. 51 della Costituzione è stato scritto per combattere l’assenza delle donne dallo spazio pubblico, non per sancire l’indifferenza del sesso, ai fini dell’accesso alla rappresentanza, ma per evitare che il sesso diventi motivo di esclusione. L’ultima delle ragioni che ha spinto la Corte costituzionale a pronunciarsi contro il sistema elettorale di genere, è quella della “moltiplicazione delle identità e quindi all’esaltazione delle specificità destinate alla propria quota di rappresentanza pluralistica”.[29] Ammesso che esista un reale pericolo di proliferazione di richieste di riconoscimento di rappresentanze identitarie minoritarie, ciò non è sullo stesso piano del riconoscimento della rappresentanza di genere perché le donne non sono una minoranza ma una maggioranza.

La decisione della Corte, e, soprattutto le motivazioni che l’hanno sostenuta, hanno suscitato numerosi commenti in dottrina. In primo luogo, è stata criticata l’interpretazione data dalla Corte all’art.p.51 Cost.: secondo M.V. Ballestrero tale interpretazione tende a restringere il principio nei limiti dell’eguaglianza formale, contraria in quanto tale a ogni caratteristica differenziale e alla legittimità di considerare alcuni elementi che differenziano gli individui, quali il genere.[30]

Un secondo ordine di critiche riguarda la  discutibile distinzione, posta dalla Corte costituzionale a base della propria decisione, tra garanzia nei punti di partenza e garanzia dei risultati. La Consulta dichiara l’incostituzionalità delle quote in quanto con esse il legislatore avrebbe mirato non a rimuovere gli ostacoli ( ex.art.3,comma 2°,Cost.) ma ad attribuire direttamente i risultati. Tuttavia, sembra doversi dire che, nell’ambito del procedimento elettorale, il risultato non è quello di entrare in lista, quanto piuttosto quello di essere eletto quindi il ragionamento della Corte sembra non applicabile alla legge in oggetto, nella quale l’elettore può esprimere una preferenza per uno qualsiasi dei candidati compresi nella lista. Altri autori hanno invece contestato il ragionamento della Consulta in merito al rapporto tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale.

Questi sostengono che debba valere un certo bilanciamento dei due principi che può svolgersi soltanto caso per caso,[31] e che, comunque il principio di eguaglianza formale impone, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, un trattamento differenziato per situazioni differenti e, quindi, un diritto “diseguale”.[32]

3.4.Un’importante sentenza della Corte costituzionale(n.49,10 febbraio 2003)

La legge regionale della Valle d’Aosta 13 novembre 2002, n.21, recante “Modificazioni alla legge 12 gennaio 1993, n.3” è stata impugnata dal Governo e sottoposta alla valutazione della Corte costituzionale. La legge impugnata (in particolare all’artt. 2, 1° comma e 7, comma 1°) introduce l’obbligo della presenza nelle liste elettorali di entrambi i sessi. Ciò significa almeno un rappresentante per sesso (presenza minima).

Il Governo si rifà alla sentenza n.422 del 1995 della Corte costituzionale.

La Regione Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste porta a suo favore in giudizio l’art.117 della

Costituzione (così come riformato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), che sostiene che le leggi regionali devono promuovere la parità di accesso delle donne alle cariche elettive.

La Corte costituzionale dichiara la fondatezza costituzionale della legge regionale 13 novembre 2002 della Valle d’Aosta.

Vediamo le motivazioni addotte dalla Corte.

La Corte costituzionale sostiene che, in primo luogo, deve osservarsi che l’obbligo imposto dalla legge, e la conseguente sanzione di invalidità, concernono solo le liste e i soggetti che le presentano.

In secondo luogo, non è qui prevista alcuna misura di “disuguaglianza” allo scopo di favorire individui appartenenti a gruppi svantaggiati. Non vi è alcuna incidenza diretta sul contenuto dei diritti fondamentali dei cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, tutti egualmente eleggibili sulla base dei soli ed eguali requisiti prescritti. La Corte sostiene che tale norma non incida sul risultato ma solo sulla formazione delle liste elettorali.

Quindi non è una vera e propria quota e non incide sul meccanismo della rappresentanza.

La Corte ricorda come rispetto alla sentenza del 1995 il quadro costituzionale di riferimento si è evoluto. La legge costituzionale n.2 del 2001, integrando gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, ha espressamente attribuito alle leggi elettorali delle Regioni il compito di promuovere condizioni di parità (tra i sessi) per l’accesso alle consultazioni elettorali. Le nuove disposizioni costituzionali (cui si aggiunge l’analoga previsione del nuovo art.117) pongono esplicitamente l’obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni.

Questa sentenza chiude un capitolo però non è detto che ne apra uno nuovo perché il legislatore è vincolato dal rispetto della Costituzione.

Libero Cerrito

BIBLIOGRAFIA

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BALLESTRERO MARIA VITTORIA, Questione di colore, in Consensi e dissensi.

BALLESTRERO MARIA VITTORIA, Dalla tutela alla parità, La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Il Mulino,1979.

BARBERA MARZIA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro. Giuffrè Editore.

BECCALLI BIANCA, La storia delle donne e il caso Sears, in “Rivista italiana di Storia Contemporanea”, n.4,1986.

Capitolo Il principio di parità nell’ordinamento italiano.

Consensi  e dissensi. Azioni positive e discriminazioni alla rovescia. Una importante sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti.

GALEOTTI ANNA ELISABETTA, La differenza: politica, non metafisica.

GIANFORMAGGIO LETIZIA, Politica della differenza e principio di uguaglianza: sono veramente incompatibili?, in L’eguaglianza: nozioni e regole. Un dibattito tra giuslavoristi e teorici del diritto.

GIURISPRUDENZA Comunità europee GIORNALE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO N. 8/2000.

Legge 9 dicembre 1977 n.903-Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

Legge 10 aprile 1991, n.125.-Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro.

SENTENZA BADECK, 28 marzo 2000 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE.

SENTENZA n. 49 Anno 2003 CORTE COSTITUZIONALE.

SENTENZA KALANKE, 17 ottobre 1995 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE.

SENTENZA  MARSCHALL 11 novembre 1997 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE.

SENTENZA TRANSPORTATION AGENCY, SANTA CLARA COUNTY, CALIFORNIA. Decided March 25, 1987.

 

[1] Parte degli studiosi, tra cui M.V. Ballestrero, sostiene che discriminazione sessuale e razziale siano problemi sociologicamente diversi. Si veda il saggio di M.V. Ballestrero Consensi e dissensi, Questione di colore.

[2] Sono state istituite, inoltre, due agenzie federali, la Eeoc (Equal Employment Opportunity Commission) e l’Office of Federal Contractors Compliance che sono responsabili dell’attuazione delle leggi di parità e della promozione di azioni positive.

[3] Cfr.Ph.Wallace, Equal Employment Opportunity and the AT&T Case, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1976.

[4] Il suo scritto classico sull’argomento è Discriminazione alla rovescia, in R.Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1982. Secondo Dworkin, il “merito” non è facilmente misurabile poiché non vi sono delle misure chiare e uniche del merito. Le scuole professionali hanno utilizzato a lungo una varietà di criteri, tra cui i punteggi ricavati dai test,ma hanno anche fatto uso di “valutazioni soggettive sull’idoneità del candidato a diventare un medico che reagisca bene a fronte dei bisogni di servizio medico che la società ha in uno specifico momento” (cfr. R. Dworkin,. Why Bakke Has No Case, in “New York Review of Books”, 10 novembre 1977.p.14). Questo tipo di ragionamento può essere base di discriminazione.

[5] Il suo scritto classico sull’argomento è Discriminazione alla rovescia, in R.Dworkin , I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982.

[6] Dal saggio  di Elisabetta Galeotti,“La differenza: politica, non metafisica”,cit.p.22.

[7] Dal saggio “La differenza: politica, non metafisica”, cit.p. 19.

[8] Schematicamente la teoria di Gilligan suggerisce che il bambino definisce la propria personalità attraverso la separazione dalla madre, mentre la bambina si definisce attraverso l’identificazione con la madre. Così si costruisce un’identità destinata a durare nella vita adulta: gli uomini crescono contro la dipendenza e per l’autonomia, le donne per la soddisfazione dei bisogni altrui reprimendo i propri. Cfr. C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991.

[9] Cfr. B. Beccalli, La storia delle donne e il caso Sears, in “Rivista Italiana di Storia Contemporanea”, n. 4, 1986.

[10] Per chi fosse interessato rinvio alle osservazioni sviluppate altrove sui suoi concetti portanti: gruppo di minoranza, pregiudizio, giustizia procedurale. Cfr.M.Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano 1991.

[11] Si veda il saggio di Stefano Nespor , Politica delle quote: pro e contro, in Donne in quota, Feltrinelli, Milano 1999.

[12] Cfr. R. Kennedy, Persuasion and Distrust: a Comment on the Affirmative Action Debate, in “Harvard Law Review”, 1986, pp.1327 sgg.

[13] Cfr. Bush v. Vera, 116 S. Ct. 1941 (1996).

[14] Si veda la sua disserting opinion in Johnson v. Transportation Agency Santa Clara County, California, 480 U.S., 616 (1987).

[15] Si veda al riguardo P. Mori, La parità tra uomo e donna nel Trattato di Amsterdam, in Dir. Un. Eur., 1998, 571; E.Ellis, Recent Developments in European Community Sex Equality Law, in Common Market Law Review, 1998, 379; L.Ronchetti, Uguaglianza sostanziale, azioni positive e Trattato di Amsterdam, in Riv.it.dir.pubbl.comunit., 1999, 985; H.H.Trute, A.Wahl, J.Costede, Equality of sexes, in Rev.eur.dr.publ., 12999,485.

[16] All’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo.

[17] Dichiarazione n. 25 contenuta nell’Atto finale adottato nella Conferenza di Torino.

[18] Cfr.L.Ronchetti, Uguaglianza sostanziale, azioni positive e Trattato di Amsterdam, cit.p.994.

[19] Marzia Barbera, L’eccezione conferma la regola, ovvero l’eguaglianza come apologia dello status quo, in Donne in quota, Feltrinelli, Milano 1999, cit.p.128.

[20] La Corte ha applicato lo stesso concetto anche per censurare ostacoli che si frappongono alla circolazione delle merci, alla libertà di stabilimento, o alla prestazione di servizi. Per un approfondimento si vedas di M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto al lavoro, Giappichelli, Torino 1997, p. 128.

[21] E’ interessante vedere il commento dell’Avvocato generale Tesauro alla sentenza Kalanke. Tesauro pone in evidenza il principio universalistico dell’eguaglianza fra gli individui. Ogni deroga a questo principio (compresa quella consentita dal paragrafo 4 dell’art.2 della direttiva 76/207) va interpretato restrittivamente. In secondo luogo Tesauro ritiene che le quote vadano oltre i limiti consentiti dalla deroga perché gli ostacoli che impediscono alle donne di essere eguali, invece di essere rimossi, costituiscono il presupposto di altre diseguaglianze basate sul sesso. Secondo Tesauro le uniche misure di diritto diseguale che consentono di arrivare all’eguaglianza sostanziale sono quelle che intervengono sulle cause più profonde delle disparità sociali, agendo sull’ordinamento scolastico e professionale, in modo da inserire le donne nei settori nei quali esse sono sottorappresentate e favorendo la conciliazione tra famiglia e lavoro.

[22] V. il punto 29 della sentenza Marschall cit.

[23] V. il punto 30 della sentenza Marschall.

[24] Nel 1983 , al fine di rendere più concrete le azioni miranti all’effettivo raggiungimento della parità di trattamento, fu istituito presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale il Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento e eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici. Con la l. 22.6.1990, n. 164 è stata istituita, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, col compito di promuovere l’eguaglianza dei sessi rimuovendo ogni discriminazione diretta o indiretta nei confronti delle donne ed ogni ostacolo che limita di fatto la parità secondo l’art.3 della Costituzione. Il compito della Commissione è l’elaborazione delle modifiche necessarie a rendere conforme la legislazione al fine dell’eguaglianza tra i sessi e il suggerimento delle iniziative necessarie per assicurare pari oppor5tunità tra uomo e donna.

[25] Ainis, Azioni positive e principio di eguaglianza, in Giur.cost., 1992, p. 582 ss.,qui 591.

[26] Si veda la sentenza n. 163/1993 della Corte costituzionale.

[27] Cfr. Gianformaggio, Eguaglianza e differenza: sono veramente incompatibili? in Bonacchi e Groppi,

Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, cit.p.236.

[28] In questo senso per tutti v. Ballestrero, A proposito di eguaglianza e diritto del lavoro, in Lav. dir., 1992, n.4, p.77 ss.; Napoli, La legge sulle azioni positive per la realizzazione delle pari opportunità uomo-donna nel lavoro, in Prosp.sind., 1992, n.82 ss., Treu, op.cit.p.109 ss.

[29] Cfr. R.Toniatti, Identità, eguaglianza…,cit.p.101.

[30] M.V.Ballestrero, Azioni positive e quote, cit,p.52.

[31] G. Cinanni, Leggi elettorali e azioni positive, cit.p.3286.

[32] Ancora MV: Ballestrero, Azioni positive e quote, cit.p.53.